Il possesso indiretto:
immaginiamo di affidare temporaneamente un nostro bene ad altri. Per esempio supponiamo di prestare per qualche settimana il nostro scooter a un amico, oppure di affidare a un amministratore la gestione di un nostro immobile.
Sicuramente, così facendo, perdiamo la materiale disponibilità del bene. Ne perdiamo, per questo, anche il possesso?
Ci risponde l'art. 1140, comma 2, c.c.: Si può possedere direttamente oppure per mezzo di altra persona che ha la detenzione della cosa.
Ciò significa che non è indispensabile, ai fini del possesso, avere un rapporto fisico diretto e costante con la cosa. Anche cedendone l'uso da altri il possesso è conservato purchè il possessore abbia la concreta possibilità di ripristinare quando vuole, senza azioni violente o clandestine, il contatto materiale con il bene (Cass. 2006, n. 4404).
Nel nostro esempio, manterremo il possesso dei nostri beni fin quando avremo la concreta possibilità di riprendere in consegna lo scooter prestato all'amico oppure di revocare o non rinnovare il mandato all'amministratore. Questi soggetti, come ormai dovrebbe essere chiaro, non hanno assunto il possesso dei beni, ma la semplice detenzione.
E se comperiamo merci che sono ancora in viaggio o si trovano conservate in un deposito, ci è sufficiente prendere in consegna la lettera di vettura o la fede di deposito per assumerne il possesso?
La risposta è affermativa. Anche questi casi si configurano come ipotesi di possesso indiretto. La lettera di vettura, infatti, è un documento che attribuisce il diritto esclusivo di farsi consegnare la merce quando questa arriverà a destinazione e la fede di deposito è un documento che attribuisce il diritto esclusivo di farsi consegnare la merce depositata nei magazzini. Il vettore e il depositario sono soltanto detentori.
La prova del possesso:
immaginiamo di dover provare al giudice di essere possessori di una fotocopiatrice che abbiamo in ufficio. Ci sarà facile, magari ricorrendo a un paio di testimoni, dimostrare di averne la materiale disponibilità (il corpus). Ma come potremmo provare la sussistenza dell'animus, cioè dell'intenzione di possedere? Come si può provare un'intenzione?
Risolve la questione l'art. 1141, comma 1, comma 1, c.c.: Si presume il possesso in colui che esercita il potere di fatto (...).
Ciò vuol dire che ci basterà provare di esercitare il potere di fatto sulla fotocopiatrice perchè il giudice presuma (per le presunzioni rivedi modulo B) che abbiamo anche l'intenzione di possedere (cioè l'animus possidendi) e ci dichiari possessori.
E se la controparte sostenesse che avevamo la materiale disponibilità del bene non in quanto possessori, ma in quanto detentori?
Per esempio, se la fotocopiatrice era stata presa in leasing, potrebbe sostenere questa tesi la società concedente.
L'art. 1141, comma 1, c.c., letto sua interezza, risolve anche questo problema: Si presume il possesso in colui che esercita il potere di fatto quando non si prova che ha cominciato ad esercitarlo semplicemente come detenzione.
Ciò vuol dire che se la società concedente esibirà una prova (per esempio il contratto di leasing) con cui dimostra che abbiamo cominciato a disporre della cosa come semplici detentori, cadrà la presunzione iniziale e il giudice dovrà considerarci detentori.
Il possesso di buona e di malafede:
se possediamo un bene che non ci appartiene, le ipotesi possibili sono due:
- siamo in mala fede, cioè abbiamo la precisa consapevolezza di ledere un diritto altrui;
- siamo in buona fede, cioè non riteniamo di ledere, con il nostro comportamento, alcun diritto altrui.
Siamo generalmente in buona fede, per esempio, quando entriamo nei negozi e comperiamo le cose che vi sono esposte senza sapere (e come potremmo?) se siano o no, di provenienza illecita.
La definizione di possesso di buona fede è data dall'art. 1147 c.c. che nei commi 1 e 2 così stabilisce; E' possessore di buona fede chi possiede ignorando di ledere l'altrui diritto. La buona fede (però) non giova se l'ignoranza dipende da colpa grave.
E' in colpa grave, ha chiarito la Cassazione, colui che non si è accorto della lesione dell'altrui diritto solo perchè ha omesso di usare anche quel minimo di comune diligenza che è pproprio di ogni persona avveduta (Cass. 1997, n. 4328).
Per esempio, immaginiamo di aver acquistato per poco prezzo un videoregistratore da un improvvisato venditore ambulante a un casello autostradale e supponiamo che l'apparecchio risulti rubato. Ai fini della qualificazione del possesso il giudice non ci chiederebbe neppure se ignoravamo la provenienza furtiva del bene perchè, in ogni caso, la nostra ignoranza sarebbe dipesa da grave trascuratezza.
Similmente, immaginiamo di aver acquistato un terreno senza sapere che il venditore non ne era il vero (o l'unico) proprietario. La nostra buona fede sarà irrilevante se l'errore sarà dipeso dal fatto di non aver operato le normali visure nel registro immobiliare per accertare la titolarità del diritto di proprietà su quel terreno (Cass. 1992, n. 11285).
Come si può dimostrare al giudice di essere caduti in un errore involontario e scusabile?
E' ancora l'art. 1147 c.c. a risponderci. Dispone, infatti, il comma 3:
- La buona fede è presunta (...)
Ciò significa che chi possiede il bene non deve provare nulla; spetta a chi agisce in giudizio dimostrare che nel comportamento del possessore vi è stata mala fede oppure colpa grave;
- (...) e basta che vi sia stata al momento dell'acquisto.
Sarà quindi inutile, per la nostra controparte dimostrare che dopo l'impossessamento siano stati avvertiti che quel bene le apparteneva. La conoscenza successiva dell'altruità della cosa non cambia la qualificazione del possesso.
Anche i giuristi romani sostenevano che mala fides superveniens non nocet (la malafede sopravvenuta non nuoce).
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